La scuola del silenzio

Una vacanza dal rumore: corsi di silenzio (artistico, meditativo, escursionistico), fra le colline di Anghiari

Convegni & maratone del silenzio

Da Milano a Torino, da Foligno a Roma, incontri con audiologi, naturalisti, astronomi, filosofi, scrittori...

I taccuini del silenzio

Pensieri per un momento di stacco, libri da tenere in tasca, per ritagliarsi una pausa di silenzio.

Spettacoli, festival, mostre del silenzio

Reading, concerti, festival, gite in barca e nelle oasi acustiche, mostre: il silenzio può essere un'occasione di divertimento e passeggiate

Il pubblico

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Il silenzio dell'uomo con la schiena dritta (Duram Adam)

di Giorgio Macario

Ermen Gunduz è un genio. Certo è anche un giovane performer e coreografo turco e questo può averlo  avvantaggiato sul versante della creatività.
Ma nulla toglie al fatto che con il suo semplice ‘stare ritto in piedi’ come gesto corporeo, apparentemente passivo e innocuo ma in realtà potente quanto un maglio d’acciaio, abbia disintegrato la pretesa del governo turco di rispondere alle crescenti proteste con cariche, fumogeni e intrugli urticanti vari.
Se in Avatar il popolo Na’vi  insegna all’essere umano l’importanza e la forza della semplice locuzione ‘Io ti vedo’, Ermen Gunduz ha ricordato a tutti noi, nella sua testimonianza solitaria ma estremamente contagiosa, quanto possa essere sgradito al potere turco, così come a tutti i poteri costituiti che perdono il contatto con la realtà, sentirsi sotto costante osservazione.
“Io vi vedo e quel che fate è sotto i miei occhi” è il messaggio silenzioso e provocante ad un tempo che quell’uomo solitario con la schiena dritta (ormai noto come ‘the standing man’, in turco ‘duran adam’) ha trasmesso efficacemente con il suo solo stare ritto in piedi in piazza Taskim a Istanbul , con lo sguardo rivolto ad un centro culturale dismesso non casualmente intitolato al padre della Patria Kemal Ataturk.
“Noi vi vediamo e quel che fate è sotto gli occhi di tutti” è il messaggio altrettanto silenzioso e rivoluzionario che decine di migliaia di giovani e non più giovani, a Genova, in Italia così come in tutte le piazze del mondo, rimandano non solo al premier turco Recep Tayyip Erdogan ma a tutti i governanti  che si vengano a trovare in condizioni analoghe.
Ma ora che ci penso, ho cambiato idea. Ermen Gunduz, l’uomo che sta ritto in piedi, non è un genio; è un uomo nel senso più nobile del termine, un abitante della Terra che ha riscoperto per noi l’importanza del silenzio come ‘arma sonica’ non violenta.
Nella civiltà dell’immagine spesso tutto avviene in un istante e si consuma altrettanto rapidamente.
Qualche volta quest’istante racchiude un’intuizione folgorante che rimane come scolpita nella pietra.
E dilaga per ogni dove, in un silenzio assordante.

Citazioni dal silenzio

“Non si può restare sempre sulle vette, bisogna ridiscendere… A che pro allora? Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto. Salendo, devi prendere sempre nota delle difficoltà del tuo cammino; finché sali, puoi vederle. Nella discesa, non le vedrai più, ma saprai che ci sono, se le avrai osservate bene. Si sale, si vede. Si discende, non si vede più; ma si è visto. Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto. Quando non è più possibile vedere, almeno è possibile sapere.”
Renè Daumal
“«Camminare» il solo pronunciarla è già parola distensiva, parasillaba, risuona in altre che hanno lo stesso merito di acquietare la mente e di esprimere gioia, gusto per la vita. Accompagna il respiro. Come la parola amare, che invece non suscita sempre l’identica dolcezza annunciata. Al di sotto di ogni sua pronuncia pacificante, sconvolge, turba, meraviglia.
Amare e camminare, al di là delle loro funzioni ben note, dischiudono al nuovo; sono un andare verso l’altro, sono l’inoltrarsi nella boscaglia dei sentimenti ignoti che l’amore riserva.”
Duccio Demetrio

“Lo spaesamento è possibile nella città se non andiamo cercando in modo stereotipato delle forme, delle manifestazioni di bellezza, ma soprattutto se andiamo cercando manifestazioni che non conosciamo dell’umanità, della gente, dei loro discorsi, delle loro parole, delle loro storie… Camminare vuol dire anche questo: non solo per sé, ma camminare incontro agli altri, incontro all’imprevisto…”
Duccio Demetrio
“Credo che una camminata veloce non apporti nulla di particolarmente affascinante, d’importante per la nostra vita quotidiana.
Il problema credo invece, nelle nostre quotidianità, sia quello di riuscire a trovarci degli spazi, dei momenti, in ore forse ingrate per alcuni, all’alba oppure nella notte, dove la nostra camminata, anche in luoghi soliti e quotidiani, può riconquistare quel ruolo che ci invita a stabilire una relazione tra il pensiero, il linguaggio interiore e il nostro andare a piedi”.
Duccio Demetrio
“Prendimi per mano.
Cammineremo.
Cammineremo soltanto.
Sarà piacevole camminare insieme.
Senza pensare di arrivare da qualche parte.
Cammina in pace.
Cammina nella gioia.
Il nostro è un cammino di pace.
Poi impariamo
che non c’è un cammino di pace;
camminare è la pace;
non c’è un cammino di gioia;
camminare è la gioia.
Noi camminiamo per noi stessi.
Noi camminiamo per ognuno
sempre mano nella mano.
Cammina e tocca la pace di ogni istante.
Cammina e tocca la gioia di ogni istante.
Ogni passo è una fresca brezza.
Ogni passo fa sbocciare un fiore sotto i nostri piedi.
Bacia la terra con i tuoi piedi.
Imprimi sulla terra il tuo amore e la tua gioia.
La terra sarà al sicuro
se c’è sicurezza in noi”
Thich Nhat Hanh
“Non puoi percorrere la via prima di essere diventato la via stessa”.
Buddha
“Viandante, sono le tue orme la via e nulla più; viandante non c’è via, la via si fa con l’andare. Con l’andare si fa la via e nel voltare indietro la vista si vede il sentiero che mai si tornerà a calcare. Viandante, non c’è via ma scie nel mare”.
Antonio Machado
“Camminando sulle strade di campagna, come sui sentieri della vita, si impara che nulla va espulso, allontanato dalla nostra coscienza e tutto va abbracciato, sensazioni, emozioni, pensieri, uomini, piante, animali, la luce e l’ombra, la strada difficile e quella facile. Tutto questo la meditazione può insegnarcelo e la camminata ne è un simbolo limpido”.
Mario Armellini
“Tutti sappiamo camminare ma pochi sanno camminare in maniera lenta. Riappropriarsi delle proprie capacità di camminare, ritrovare il contatto con la natura e con se stessi, avere il tempo di meravigliarsi del colore di un papavero o della forma di una nuvola, sono semplicemente queste le regole del camminare lento.”
Alessandro Vergani
“Ero uscito solo per fare una passeggiata ma alla fine decisi di restare fuori fino al tramonto, perché mi resi conto che l’andar fuori era, in verità, un andare dentro”.
John Muir
“Rimango spesso sbalordito quando, indipendentemente da quante volte io abbia percorso lo stesso sentiero, scopro di essermi perso altri sentieri che si dipartono da esso, oppure mi accorgo che lungo il cammino c’erano dei bellissimi posti che non avevo notata prima! La stessa cosa accade anche nella nostra vita di tutti i giorni. Quante opportunità semplicemente non vediamo, perché siamo troppo presi da quello che stiamo facendo, andiamo troppo di fretta o ci stiamo saldamente aggrappando ad un unico punto di vista?”
James Endredy
“Strada: striscia di terra che si percorre a piedi. Diversa dalla strada è la strada asfaltata, che si distingue non solo perché la si percorre con la macchina, ma in quanto è una semplice linea che unisce un punto ad un altra. La strada asfaltata non ha senso in se stessa; hanno senso solo i due punti che essa unisce. La strada è una lode allo spazio. Ogni tratto di strada ha senso in se stesso e ci invita alla sosta. Prima ancora di scomparire dal paesaggio, le strade sono scomparse dall’animo umana: l’uomo ha smesso di camminare con le proprie gambe e di gioire per questo. Anche la propria vita armai non la vede più come una strada, bensì come una strada asfaltata: come una linea che conduce da un punto ad un altro..”
Milan Kundera
“La pressione del piede mio sulla terra ne fa sgorgare mille affetti che si beffano d’ogni sforzo che compio per descriverli”.
Walt Whitman
“La parola e il silenzio sono intimamente connessi. Considerare la parola senza silenzio è come considerare i buffoni di Shakespeare senza la gravità degli eroi shakespeariani”.
Max Picard
“Prima che l’uomo parli, nell’istante immediatamente precedente, la parola ondeggia ancora sopra il silenzio che ha appena abbandonato, ondeggia tra il silenzio e la parola. La parola è ancora incerta sulla sua direzione: non sa se ritornerà del tutto nel silenzio, scomparendovi, oppure se ne allontanerà nettamente per farsi voce”.
Max Picard
“L’uomo vive a metà strada tra il mondo e il silenzio da cui proviene e il mondo dell’altro silenzio verso cui si dirige, quello della morte. Tra questi due mondi vive anche la parola umana e ne trae sostegno. Per questo la parola ha una doppia eco: l’una da dove proviene, l’altra dal mondo della morte.
La parola deve la sua innocenza, ingenuità, originalità al silenzio da cui proviene mentre la brevità, la fugacità, la fragilità e il fatto di non corrispondere mai pienamente alla cosa che denomina, provengono dal secondo silenzio, dalla morte”.
Max Picard
“Oggi la parola è lontana da entrambi questi mondi del silenzio, nasce dal rumore e nel rumore svanisce, il silenzio non è più un mondo a sé stante, è soltanto il luogo non ancora invaso dal rumore, è solo un’interruzione nel rumore; per un istante l’apparecchiatura del rumore non funziona, questo è oggi il silenzio: rumore che non funziona”.
Max Picard

Elena Loewenthal: le parole del silenzio

Il testo dell’intervento di Elena Loewenthal al Simposio dell’Accademia del Silenzio tenutosi ad Anghiari il 10 - 11 giugno 2011

Parlare del silenzio è una contraddizione in termini.

Ma siccome il silenzio è un territorio – tanto interiore quanto esterno a noi -, siccome abbiamo la parola per dare figura e idea e suggestione al mondo, proverò a usarle anche per quel che è apparentemente indescrivibile. Innominabile.

Cercherò di farlo nel modo più pacato e consono, sempre tenendo presente il paradosso che mi guida. Parlare del silenzio è negarlo, ma negarlo è necessario per capirlo…

Del resto, quali competenze ho? Di mestiere uso le parole, che sono il suo contrario. Mi piace il silenzio, ma quando scrivo ascolto musica. Detesto l’inquinamento acustico, mi capita di invidiare chi è sordo per questo, a volte. Il suono è diventato un sottofondo imprescindibile, ovunque. Quindi queste considerazioni sono un azzardo, un arbitrio del tutto personale. Altro che lezione… Non ho certo lezioni da impartire.

Però godo di un osservatorio privilegiato, che deriva anch’esso dalla mia quotidiana consuetudine con le parole, giorno per giorno. Parole scritte.

E in particolare è nel confronto fra lingue diverse che implica la traduzione, è qui, su questo terreno instabile in bilico fra una lingua e l’altra, in questo margine bianco della pagina dove abita di solito l’umbratile mestiere di traduttore, che trovo materia di riflessione. Non voglio tenervi troppo in sospeso, ma un poco ancora sì.

La traduzione è un corpo a corpo con le parole, dove arrivi a conoscerle in un modo tutto speciale, perché è proprio nel confronto fra i sensi, le sfumature, i suoni (benché silenziosi, ascoltati ma non pronunciati), si scoprono realtà che altrimenti resterebbero nascoste lì in fondo, negli interstizi fra le lingue, negli spazi bianchi della pagina. La traduzione, soprattutto se, come nel mio caso, è un viavai fra due lingue molto diverse, con poco o nulla in comune, è non di rado una cartina di tornasole ottima per far saltare all’occhio, alla mente e al cuore, mancanze e ridondanze. Quel che c’è e quello che invece non trovi – qui e lì.

Ora, in italiano siamo costretti a dare un senso assoluto e univoco al silenzio. Le parole, io credo fermamente, non sono solo tramite di significato, non sono un mero strumento di comunicazione. Fra la realtà, la nostra percezione della realtà e le parole, esiste una dinamica costruttiva. Creativa. Le parole fanno la realtà, la modificano e la plasmano non meno del contrario. Se l’italiano ha una sola parola per dire silenzio, allora significa che nella nostra sfera mentale il silenzio è uno solo. Così s’è costruito. Provate a cercare un sinonimo, in italiano. Non c’è, ed è curioso in una lingua così ricca come la nostra, abbondante di termini, lessico, sfumature.

Così, se restiamo sul terreno dell’italiano, non abbiamo altra scelta che quella di considerare il silenzio come un’unica, categorica cosa. Assenza di suono, e basta. Fatichiamo a immaginare un universo concettuale differente, in cui il silenzio sia “cose” diverse. Sia plurale.

Eppure esiste, questa valenza multipla del silenzio. A me l’ha svelato la traduzione, e l’ha svelato nel modo più diretto e pregnante e inequivocabile: attraverso le parole. Perché, a differenza dell’italiano, che è così essenziale (direi quasi insufficiente) con il silenzio, la lingua dalla quale si diparte il mio lavoro di traduzione, cioè l’ebraico, conosce almeno tre radici semantiche diverse, per dire “silenzio”. Tenete conto che l’ebraico è una lingua estremamente primitiva, antica. Anzi, ancestrale. È sostanzialmente sempre lo stesso, dalla Bibbia ad Amos Oz e A.B. Yehoshua: è una lingua dalla continuità strabiliante. Ma è anche una lingua molto elementare, molto semplice nella sua struttura – non esistono i tempi ma solo due modi diversi dei verbi, non esiste il verbo avere… – e anche nel lessico. Fanno eccezione alcuni campi semantici, vuoi per abbondanza vuoi per carenza: ci sono molte parole per dire “pioggia” e hanno sempre una connotazione decisamente positiva, di auspicata benedizione (l’ebraico abita in un luogo arido). Ce ne sono moltissime per dire “luce” – quella sua terra ne ha tanta, e di gradazioni, colori, intensità diverse.

Anche il silenzio fa parte di quei rari casi in cui l’ebraico è generoso di parole. E siccome non lo è mai invano, perché è una lingua essenziale dove nulla è superfluo o lì per caso, questa abbondanza è per me un invito a esplorare i territori del silenzio. Oltre che, naturalmente, una sfida traduttiva: come faccio, vertendo in italiano il testo, a rendere giustizia alla varietà di silenzi che l’ebraico conosce – con una parola soltanto?

Che guaio…

Ad ogni modo, eccomi di fronte a più parole per dirlo: sheqet, dom, demama, lishtok. Certo, apparentemente sono suoni e basta. Non dicono nulla, a meno di conoscere la lingua in cui si esprimono. Cercherò di darvi qualche traccia.

Sheqet è il silenzio della quiete, della serenità. Però è tassativamente silenzio, assenza di suoni – cosa che la parola “serenità” non rende, ovviamente. È un silenzio sommesso, pacato, sgombro ma non del tutto.

Lishtok è un infinito verbale (li- è semplice prefisso). Indica il silenzio imperativo, quello che si impone alla parola. È ingiunzione ai bambini in classe. È un silenzio un po’ rabbioso, un po’ rivendicativo. Dovrebbe essere assoluto, almeno per un po’. Significa “zittimento”, in sostanza, e viene necessariamente dopo un rumore molesto. Ecco, anche le parentesi intorno al silenzio ne determinano il significato, la parola: quel che c’è prima e quel che viene, forse, dopo.

Dom, invece, è un silenzio abissale. Fa paura, come l’ignoto. È lo stato del mondo prima che Dio lo spezzasse parlando: nella Bibbia la creazione è dire le cose. Tutto si fa attraverso la parola (eccetto l’uomo, che è ricavato dalla polvere del suolo, ultima produzione prima che cali il sabato di riposo divino, unico essere che Egli fa, di seconda mano…). Dom è onomatopeico: è un rintocco sordo di campana, un’eco profonda – di silenzio. Chiude il futuro, tronca la voce con il nulla. Forse, era il silenzio di prima che il mondo fosse creato con la voce divina.

Da questo silenzio cosmico ne deriva un altro, che è come una versione più conciliante, più afferrabile. Non a caso porta la desinenza femminile, che nell’ebraico si usa per dare una sfumatura di grazia alle parole maschili, o per indicare l’astrazione.

Demamah è una parola bellissima, secondo me. Sottile, discreta, accattivante. Indica il silenzio in cui il profeta Elia trova Dio: Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo, da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, una voce di silenzio sottile. Come l’udì Elia si coprì il volto con il mantello. Uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco venne a lui una voce che gli diceva: che cosa fai qui Elia?

(1Re 19,11-13).

Elia è un profeta minore. Non ha neanche un libro a suo nome, nel testo sacro. La sua piccole epopea di profeta viandante, incompreso, bistrattato eppure tenace nel dichiarare la falsità degli idoli e la verità dell’unico Dio, si trova dentro i libri biblici dei Re. Elia cerca Dio ma, diversamente dagli altri profeti, a lui il Signore quasi non rivolge la parola e men che meno si manifesta in modo plateale. Così, a titolo di ricompensa, credo, per la fedeltà di Elia, Egli gli fa due regali. Il primo è che Elia, invece di morire, ascende al cielo in un carro di fuoco e da allora diventa per la tradizione ebraica una specie di angelo custode pronto a tornare in terra per vegliare su tutti noi, uno per uno. Inoltre, sarà il precursore di quel messia che gli ebrei stanno ancora aspettando, verrà poco prima a preparare il terreno per la redenzione finale.

L’altro regalo è quella rivelazione strabiliante, che non arriva nello sconquasso di cielo e terra, bensì in una voce sottile di silenzio. Ecco, quel silenzio è rivelazione, stupore, certezza. Pace e verità.

È una parola leggera, chiusa in se stessa eppure aperta al futuro. È un silenzio meraviglioso, difficilissimo da tradurre. È un po’ che ci provo, invano. Forse la cosa che le va più vicino, in italiano, sono i due punti: una pausa nelle parole, una promessa di quel che verrà dopo.

Ecco, questo è ciò che la mia blanda esperienza di traduttrice mi ha concesso di sapere – o non sapere – sul silenzio.

Poi ce n’è stata un’altra, più recente e nuova per me, di esplorazione degli ospedali. Ho sentito il bisogno di fare questo viaggio molti anni fa, per conoscere l’altro mondo, quello “straniero” per eccellenza che è la malattia – un mondo parallelo che giustamente cerchiamo di ignorare finché non ci si capita, lo si attraversa, sfiora, incontra. Ne è poi scaturito un libro, una specie di romanzo fatto di storie concatenate, che s’intitola “La vita è una prova d’orchestra”. Per entrare negli ospedali sono diventata volontaria. E ho incontrato parole, sentimenti, verità e anche silenzi. Non di rado le storie che ho poi inventato (non è reportage ma narrativa) sono ispirate a porte di stanze chiuse, a silenzi enigmatici sui volti di pazienti, parenti, dottori. Il silenzio è anche, o dovrebbe essere anche, il nostro modo di affrontare l’ignoto. La paura. Tutto questo c’è tanto, dentro la malattia. Oltre alle parole che i malati ti dicono, sono ansiosi di raccontarti. Ma non meno ho imparato e conosciuto dai loro silenzi, interrotti magari da un respiro affannosso, dal ticchettio di una macchina, da una goccia che cade puntuale dentro il tubo dell’infusione.

Terminata questa mia avventura bella e terribile al tempo stesso dentro il male, il dolore, la sofferenza, credo che dovremmo imparare a declinare di più tanto la malattia, provare a renderla meno straniera per essere più pronti ad affrontarla, da vicino e da lontano. Così come dovremmo imparare ad avere più confidenza con il silenzio, a non sentirlo (solo) come un vuoto, un’assenza, una pausa. Ma sostanza di vita e sentimenti.

In libreria...

FUMAROLI M., La scuola del silenzio, Adelphi 1995

MANCINI R., La lingua degli dei. Il silenzio dall'antichità al Rinascimento, Colla editore 2008

QUINZIO S., Silenzio di Dio. E' ancora possibile credere?, Mondadori 1982

RELLA F., Il silenzio e le parole. Il pensiero nel tempo della crisi, Feltrinelli 2001

SATRIANI L.M., Il silenzio, la memoria e lo sguardo, Sellerio 1979

SINI C., Il gioco del silenzio, Mondadori 2006

VOLLI U., Apologia del silenzio. Cinque riflessioni interno alla filosofia del linguaggio, Feltrinelli 1991